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Intervista a Gennaro Capoluongo

Nel titolo del suo libro, “Dalla parte giusta”, c’è una presa di posizione forte. Cosa significa per lei essere “dalla parte giusta” dopo una vita trascorsa nelle istituzioni?

Amo esprimermi in maniera semplice affinché il mio pensiero sia oltremodo chiaro e intellegibile da tutti: il rispetto delle regole, anche quelle più elementari, che ci conducono verso una convivenza civile nell’ambito di una società che, in un mondo globalizzato, corre sempre più veloce. Questa percorrenza rapida, ovviamente da ritenersi molto utile per la crescita del Paese, deve necessariamente ricevere un bilanciamento nell’esecuzione delle sue fasi attraverso un rigoroso adempimento dei doveri che sono in capo ad ognuno di noi. Non mi riferisco solo a quelli più banalmente apostrofati come materiali, ma anche alla rivalutazione di concetti fondamentali quali giustizia, sicurezza, tranquillità sociale che afferiscono più direttamente alla nostra sfera emotiva, sensazionale: in una parola, legalità come conformità a un sistema di regole. In questa sfera anche il solo comportamento educato, civile, rispettoso della sfera di altrui autonomie e diritti potrebbe fare la differenza.

Lei racconta gli “eroi sconosciuti” delle forze dell’ordine. Chi sono, nella sua esperienza, questi uomini e donne che operano lontano dai riflettori?

Ho voluto parlare di persone comuni, che hanno fatto del loro lavoro una missione, un agire quotidiano di vicinanza alla gente, di tutela dei loro diritti, delle loro aspettative, lontano dai riflettori mediatici, consapevoli che indossare una divisa ha un significato profondo: la tutela della sicurezza del Paese nel suo significato più ampio. Donne e uomini che al di là di citazioni roboanti o di particolari riconoscenze, adempiono i loro doveri con lealtà, soddisfatti di poter pensare al termine della giornata di aver aggiunto un piccolo ma importante tassello nell’appagamento dei diritti dei cittadini. Evitare un accadimento violento, la perpetrazione di un abuso, tutelare le persone deboli, proteggere chi legittimamente chiede aiuto, consentire una vita sociale tranquilla sono obiettivi cui si protendono gli operatori di polizia, quasi come se ognuno di loro fosse caratterizzato da un particolare DNA. Mi fa piacere generare un raggio di luce su costoro che, in maniera quasi impercettibile e con atteggiamenti empatici, contribuiscono alla salvaguardia del nostro territorio.

Nel libro emerge una visione della sicurezza come valore umano e sociale, non solo come ordine pubblico. Quanto è importante oggi far capire questa distinzione ai cittadini?

Assolutamente sì, mi ferirebbe molto sentirmi dire che il libro non rappresenti adeguatamente questo aspetto. Premetto un concetto che, penso, rappresenti un assioma per noi tutti: le donne e gli uomini in divisa sono prima di tutto cittadini. Persone abituate a sentire sulla propria pelle i disagi che una società poco sicura potrebbe ingenerare. Ed è assolutamente riduttivo ipotizzare un concetto di sicurezza ridotto a una mera tenuta di presidi di polizia, seppur estremamente necessari. La sicurezza è un concetto composito di incolumità, assicurazione, garanzia, salvaguardia, e solo un approccio competente, equilibrato e protettivo conduce il cittadino a essere esente da pericoli ovvero a prevenire il rischio di un loro verificarsi. Questa condizione, ovviamente, non può né deve essere in capo esclusivamente alle Forze di Polizia, ma va considerata come un bene comune il cui raggiungimento dipende dal comportamento di tutta la collettività, che ne intuisce il grande valore sociale. Una profonda riflessione va assolutamente fatta sui valori poc’anzi enunciati onde evitare una pericolosa deriva che potrebbe condurre alla impossibilità dell’esercizio degli stessi diritti: passeggiare in strada senza essere rapinati, senza subire violenze o, addirittura, essere uccisi; esercitare attività di impresa senza richieste intimidatorie; consentire lo svolgersi di manifestazioni pacifiche, dove si possa legittimamente rappresentare anche il dissenso, fermamente condannando atteggiamenti di persone che rompono vetrine, danneggiano auto e aggrediscono poliziotti che invece sono li per far si che siano garantiti diritti costituzionali fondamentali, rappresentano aspettative di un Paese civile e democratico . Mi sento di fare un appello e spero che traspari dalla lettura del mio libro: non condanniamo la nostra società all’oblio dei valori umani di solidarietà, di rispetto per gli altri, di legalità, di fiducia nello Stato, giustificando alcuni atteggiamenti come il segno di un tempo moderno e globale. Una comunità può crescere velocemente, ma lo fa bene solo se non dimentica quei valori, se riesce a emarginare i violenti, a punire chi delinque, a esercitare giustizia, conferendo sicurezza all’intera comunità nei luoghi in cui vive.

Lei ha iniziato la carriera alla Squadra Mobile di Napoli negli anni più duri della criminalità organizzata. Qual è stato l’episodio che più l’ha segnata in quegli anni?

Ero giunto a Napoli da pochi mesi e un giorno di inizio dicembre del 1989, di mattina presto, fui chiamato da una pattuglia della volante, le rinomate “pantere” della Polizia di Stato che assicurano il controllo del territorio, che mi esortava a raggiungerla al Circolo Canottieri Napoli al Molosiglio. Quando arrivai, mi si presentò davanti una scena agghiacciante che mi ha accompagnato per tutta la mia vita: una strage, quattro persone trucidate negli spogliatoi del circolo, il cui pavimento era quasi completamente ricoperto di sangue. Una carneficina maturata nell’ambito di guerre cittadine tra clan per la conquista dei canali dello spaccio di droga in un periodo ancora contrassegnato da agguati e vendette che facevano registrare più di 200 morti all’anno. In questa sorta di “battesimo del fuoco” mi colpì molto la spietatezza degli aggressori nell’eseguire quella azione criminale, poiché appariva verosimile che il capo di questo gruppo avesse dovuto assistere all’uccisione dei suoi amici prima di essere a sua volta freddato. Guardare quell’atrocità, mentre fuori già si respirava l’atmosfera natalizia di colori e luci per l’imminente e significativa festività di pace, mi induceva a riflessioni sul valore della vita nell’ambiente criminale dell’epoca, sulla crudeltà che prevaleva sul sentimento di umanità. Quell’episodio ha sicuramente ingenerato in me ancor di più il senso di giustizia e la voglia di combattere l’illegalità.

Ha vissuto in prima persona la trasformazione della criminalità in fenomeno internazionale. In che modo è cambiato il lavoro del poliziotto da allora a oggi?

Sono un nostalgico, quindi sono portato a ritenere che la passione e l’amore che i poliziotti mettono nelle loro attività non siano cambiati. Certamente ci sono nuovi scenari rappresentati da fenomeni di criminalità che travalicano i confini nazionali, attesi che gli interessi, soprattutto quelli economici e finanziari, hanno ormai da tempo assunto una dimensione globale. Non mi riferisco soltanto alla criminalità organizzata, al terrorismo, al traffico di stupefacenti, a quello dei migranti o, ancora, ai reati che si consumano via web ma anche a quelli che sembrano più collegabili ad uno scenario locale come, ad esempio, i predatori: bande di borseggiatori di svariate nazionalità che prendono di mira capitali europee o di rapinatori in cerca di orologi di valore che fanno trasferte in luoghi turistici. Oggigiorno le tecnologie aiutano molto sia in una fase preventiva sia in quella successiva, volta agli accertamenti utili alla scoperta dell’autore del reato. Videosorveglianza, sistemi di captazione elettronica, sofisticate attività tecnico-scientifiche e procedure d’indagine legate al mondo del web indubbiamente assistono l’operatore di polizia, che, tuttavia, a mio parere, deve restare l’elemento chiave attorno al quale si sviluppano le attività di sicurezza e di indirizzo delle investigazioni. Tutto ciò, ovviamente, implica una preparazione ancora più specifica e un aggiornamento costante delle Forze di Polizia.

Nel 2001 è stato il primo poliziotto italiano inviato in un’area di guerra dopo l’11 settembre. Cosa ricorda di quell’esperienza e in che modo ha influenzato il suo modo di intendere la sicurezza globale?

Fu un’esperienza entusiasmante, seppur caratterizzata da particolari profili di pericolosità. Il Dipartimento della Pubblica Sicurezza mi reclutò per far parte di un gruppo di valutatori dell’ONU al fine di verificare la capacità dell’agenzia antidroga tagika nel contrasto ai traffici di stupefacenti provenienti da tale area, anche alla luce dei probabili, modificati asseti geo-politici e criminali avvenuti dopo il sanguinoso e tragico attacco alle torri gemelle a New York dell’11 settembre 2001. Vivere in quei posti, girare tra Uzbekistan, Tajikistan e i confini dell’Afghanistan, lavorare con colleghi con esigue attrezzature e in un territorio complicatissimo, constatare l’estrema povertà in cui vivevano le popolazioni di particolari aree, hanno indotto a convincermi che solo un’azione globale, incisiva e di estrema competenza da parte della comunità internazionale possa dare dei risultati nei confronti di particolari traffici delittuosi e di organizzazioni terroristiche.

Ha ricoperto ruoli di vertice in Interpol, Europol e alla Rappresentanza Permanente all’ONU. Cosa significa rappresentare l’Italia in contesti dove la cooperazione internazionale è la chiave del successo investigativo?

Proprio come dicevo prima, l’azione di polizia dei Paesi deve assolutamente destinare una parte delle proprie risorse alla cooperazione internazionale. Interpol, Europol e le Nazioni Unite rappresentano, utilizzando un’espressione poco aulica ma di estrema concretezza, delle “piattaforme” attraverso le quali non solo c’è la possibilità di scambiare informazioni, ma soprattutto di dialogare, analizzare in maniera congiunta fenomeni che altrimenti deborderebbero in maniera devastante, e creare una rete di contatti per le collaborazioni investigative e di prevenzione. L’Italia, in questo, ha fatto molto e continua a svolgere un ruolo di primo piano a livello internazionale, anche grazie a un’eccellente rete di esperti per la sicurezza. Sono onorato di esserne stato a capo, così come di aver rappresentato il Dipartimento della Pubblica Sicurezza in consessi internazionali sia nella veste di Direttore di Interpol Roma sia in quella di membro del Comitato Europeo di tale agenzia, sia quale Presidente del Management Board di Europol, sia, infine, quale esperto per la sicurezza presso la Rappresentanza Permanente italiana alle Nazioni Unite a New York. Ho sempre interpretato il mio ruolo con grande responsabilità, conscio di parlare nell’interesse della mia Nazione e a beneficio dei cittadini nell’equilibrata e attenta equazione di creare le condizioni idonee a generare i necessari protocolli di sicurezza, quest’ultima intesa non solo come ordine pubblico, ma anche come benessere sociale, fiducia nello Stato e speranza nel futuro.

Nel libro cita il concetto di “etica dei comportamenti”. Come si traduce questo principio nella vita quotidiana, anche al di fuori delle forze di polizia?

La sicurezza della collettività, bene assoluto per una convivenza pacifica e rispettosa dei diritti, si declina soprattutto attraverso le condotte quotidiane di tutti noi… quella che mi piace definire l’etica dei comportamenti. Rispetto le regole, attuo buoni comportamenti non solo perché sono stabilite da codici e regolamenti, ma perché ne sento l’intimo bisogno, in una coniugazione di calibrati interessi capaci di conferire la necessaria dignità alla persona. Faccio quella cosa perché ne percepisco l’obbligo morale prima che quello giuridico. Voglio raccontare un episodio avvenuto quando ero uno squattrinato studente liceale: percorrevo con Gianpiero, un mio carissimo amico, una strada prospiciente un istituto scolastico gestito da religiosi, quando ci imbattemmo in un portafoglio lasciato sul manto stradale. Ci avvicinammo, lo aprimmo e la sorpresa fu grande nello scoprire che all’interno vi fosse una cospicua somma di danaro, verosimilmente di un povero cristiano che aveva percepito lo stipendio mensile e che aveva perso il tutto nel rientrare a casa. Ci guardammo in faccia e non avemmo la minima esitazione: grazie ai documenti pure presenti, riuscimmo a raggiungere la sua abitazione e restituire ciò che non ci apparteneva. Fu un’emozione indescrivibile guardare il volto della persona illuminarsi nel recuperare ciò che aveva smarrito e nel ricevere sinceri ringraziamenti. Ancora oggi, pensando a quell’episodio provo un sentimento di soddisfazione morale misto ad orgoglio che mi fa stare bene e che mi spinge ad andare avanti in tale direzione. Ecco, in queste parole vi è il significato di tale affermazione. 

L’arresto e l’estradizione di Cesare Battisti chiudono simbolicamente il suo racconto. È stato un punto d’arrivo professionale o un riscatto morale per lo Stato?

Voglio innanzitutto precisare che l’arresto di Battisti è stato effettuato da due bravissimi colleghi quando io ero già andato via dalla Direzione Centrale della Polizia Criminale. Averne seguito, tuttavia, unitamente ad altri straordinari uomini dello Stato, le fasi investigative precedenti mi riempì di soddisfazione il vedere con quanta tenacia e perseveranza fossero proseguite sino all’epilogo della sua cattura. Privare qualcuno della libertà personale, seppur per un atto legittimo dell’Autorità Giudiziaria, non è mai un piacere, men che mai un punto d’arrivo professionale. Piuttosto, lo sono le attività di ricerca che vengono messe in piedi, il livello di qualificazione delle stesse, la capacità di analisi e l’attitudine delle tecniche investigative a consentire la realizzazione del risultato, il sacrificio e l’impegno di donne e uomini in divisa. Al contempo, in uno Stato di diritto non si può consentire che una persona condannata per gravi reati di sangue resti libera di circolare per il mondo, facendo venire meno l’azione deterrente rappresentata dalla certezza dell’esecuzione della pena. Penso che questa sia stata la vera vittoria delle istituzioni democratiche del nostro Paese: giustizia, non vendetta.

Lei parla spesso di fiducia nelle istituzioni. Come si può ricostruire oggi questo rapporto tra cittadini e forze dell’ordine, in un’epoca segnata da sfiducia e disinformazione?

Negli anni abbiamo assistito a un crescente rapporto tra polizia e cittadini, basato sulla fiducia reciproca, sulla capacità di ascolto da parte delle Forze dell’ordine delle istanze della società civile e su una considerazione che si fonda maggiormente sull’autorevolezza di coloro che svolgono funzioni pubbliche piuttosto che sulla loro autorità. Ormai sono diverse stagioni che, nei sondaggi, la polizia assume un valore significativo nella tenuta del Paese, il che dimostra quanto la gente ne apprezzi l’operato. Ed è altrettanto chiaro che, in questo processo di miglioramento, possano esserci sentimenti di insoddisfazione che vanno tuttavia considerati come stimolo a un comportamento ancora più performante nella gestione della sicurezza pubblica. Peraltro sento il dovere, su questo punto, di esprimermi in maniera alquanto decisa: il conseguimento della legalità va ricercato senza se e senza ma, evitando astruse e filosofiche argomentazioni di rifiuto di leggi dello Stato che, mi piace sottolineare, prendono vita nel Parlamento composto dai rappresentanti del popolo italiano eletti con sistemi democratici; né può essere instillata violenza e compiere azioni delittuose, anche nelle pubbliche vie, giustificando quella protesta incivile come quasi un modo normale di esprimere il dissenso. Questo va fatto in modo pacifico, senza incitazioni all’odio né spazio a gruppi criminali il cui unico obiettivo è turbare la tranquillità sociale.

A chi dedica davvero questo libro? Agli uomini e alle donne in divisa, o ai cittadini che dovrebbero conoscerli meglio?

A entrambi, consapevole della necessità di una comunanza d’intenti nella ricerca di valori assoluti che mirino al rispetto gli uni degli altri. Sono convinto che si sia raggiunta una soddisfacente maturazione nella ricerca di un processo che affronti in modo trasversale grandi temi afferenti alla sicurezza del territorio e al rifiuto di condotte criminali. In questo quadro, il lavoro silente delle donne e degli uomini in divisa, condotto incessantemente e dietro le quinte, assume un’importanza peculiare che non va interpretata come contrapposta all’agire dei cittadini, ma posta in un parallelismo per la ricerca e la tenuta comuni del valore della sicurezza e per il rifiuto e la condanna perentori del crimine.

Che messaggio vuole lasciare ai giovani che scelgono di servire lo Stato oggi? E che cosa direbbe a chi, invece, pensa che la legalità sia un valore astratto?

Mi rivolgo a tutti i giovani, sui quali nutro grandi aspettative per il futuro del Paese, con lo spirito di colui che vuole evidenziare l’indubbia valenza di concetti che hanno segnato la nostra storia: giustizia, legalità, sicurezza appaiono valori irrinunciabili che ricevono concreta attuazione solo attraverso i comportamenti quotidiani di ognuno di noi. Nell’arco del mio percorso di vita e di professione ho peraltro riscontrato una crescente sensibilità per tali aspetti, presenti nel linguaggio comune e diffusi nelle istanze della collettività. A questi giovani dico: nel percorso di vita che state intraprendendo, sulla via che vi accingete a percorrere, non rinunciate mai a seguire la strada maestra…a stare dalla parte giusta!

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